lunedì 19 marzo 2012

I Decemberists, il rock'n'roll e l'arte del live.

Ho in mano (e sul lettore, soprattutto) il nuovo live dei Decemberists, ossia uno dei tre o quattro gruppi degli anni Zero che hanno cercato veramente di creare una nuova calligrafia della canzone rock nello stanco panorama musicale di quest'ultimo decennio. C'è poco da dire se non che è ovviamente un disco monumentale, uno di quei dischi dal vivo torrenziali che nei begli anni della musica rock “rappresentavano l’approdo di una carriera, o la possibilità di mettere un punto e a capo per poi avviarne una nuova fase “, come scrive il grande critico Eddy Cilìa dalle pagine del suo sito. Cilìa prosegue dicendo che oramai il disco dal vivo “Non può più fungere né da memento, se è vero come è vero che torni a casa da un concerto e qualcuno lo ha già messo su YouTube, né da “Best Of” alternativo, quando chiunque può confezionarsene uno andando su iTunes o Amazon e scegliendosi uno per volta i pezzi che più gli aggradano”. Ed ha ragione.

La prova del live un tempo era la prova del nove dei grandi artisti, tanto che nessuno poteva dirsi “grande” senza un grande disco dal vivo. Persino due monumenti come Dylan e Springsteen hanno avuto come cruccio più grande quello di non aver mai pubblicato un grande album live. Non fraintendiamoci, nel caso di Dylan a supplire alla (grave) mancanza è giunta la collana delle Bootleg Series (“Giuda!” “Non ti credo. Sei un bugiardo! Suonate forte, cazzo!” Si deve aggiungere altro?), mentre nel caso di Springsteen il quintuplo live del 1986 è un ottimo compendio ma non rende giustizia a quello che, fra il 1975 ed il 1980 era forse il più grande act sulla faccia della Terra.

Ma sono eccezioni, eccezioni rare. Così, se volete spiegare ad un marziano cos'è il rock'n'roll, per cortesia, andate a tirare fuori dagli scaffali un certo Live at Leeds degli Who, mettetelo sul piatto (o sul lettore, per i più tecnologici), alzate il volume e se i vicini protestano ditegli pure di andarsene a fare in culo, perché this is fuckin' rock'n'roll, baby!. Perché la potenza che emana dai solchi di Live at Leeds è qualcosa di difficilmente ripetibile. Se c'è un suono di ribellione, di sensualità, di intensità allo stato puro, bé, quelli sono gli Who sul palco nel 1970, lontani dall'ingabbiamento dello studio di registrazione (dove comunque non se la cavavano male). Era là sul palco che Townsend faceva roteare le braccia sulla chitarra, che Daltrey urlava la sua anima come se dovesse lasciarla l'istante dopo (“I hope I die before get old”), che Entwistle raspava sul basso come un ossesso e che Keith Moon si lasciava andare all'istintività più pura e selvaggia. E tutto questo theatron sembra essersi stampato a fuoco nei solchi del vinile.

Poi c'erano quelli che al disco dal vivo ci arrivavano per chiudere una porta ed aprirne una nuova. Pensate a Joni Mitchell. Sì, Sweet Joni, con quegli zigomi che sembravano fatti di porcellana. Il primo live arrivò nel 1975 con i LA Express di Robben Ford come backing band, a recuperare tutta la sua carriera nel folk-rock, colorandola con un'espressività gioiosa che però lasciava presagire un cambio di rotta immediato. Il secondo live, il monumentale Shadows and light del 1980, era il suggello di una strada di sperimentazione in cui al folk degli esordi si mescolava il jazz di Charles Mingus, di Jaco Pastorius, di Pat Metheny, le voci dei Persuasions, il tutto in un melting pot dove svettavano canzoni come Amelia, Coyote o Goodbye Pork-Pie Hat. Ed era perfetto. Potete chiamarla fusion, potete chiamarla come vi pare: le note di Shadows and light mostravano un'artista al climax della sua espressività ma costituivano anche l'ultimo grande momento di un'autrice ed interprete che non avrebbe mai più toccato vette così vertiginose.

Poi, a fronte di live così “pensati” e perfetti ci sono quelli viscerali e soulful, dove la musica diventa un torrente in piena, dove chi suona sembra farsi trascinare in sentieri ignoti, dove le proprie canzoni si mischiano a canzoni altrui, andando a disegnare veri e propri percorsi dell'anima. È il caso dei Waterboys dell'anno di grazia 1985, il periodo d'oro di una delle più grandi e sottovalutate band di tutti i tempi. E poco importa che “The live adventures of Waterboys” sia un'uscita soltanto semi-ufficiale. Erano i tempi d'oro di Fisherman's blues, i tempi in cui Mike Scott era un piccolo Bob Dylan scozzese bruciato da una passione per la musica che lo consumava fino in fondo. E così, accanto alle versioni definitive di This is the sea, con un violino spaccacuore a perforare lo spirito, o di The pan within, che per miracolo si fondeva a Because the night in dieci minuti da fiume in piena, spuntavano una Purple rain (sì, proprio quella di Prince) trasformata in un brivido folk rock o il Dylan di Death is not the end dieci anni prima di Nick Cave.

E poi c'erano individui come Willy DeVille. Già, perché se c'è mai stato al mondo un animale da palcoscenico, quello era Willy DeVille. Così, il live del 1992 mostra al mondo un incrocio fra un pirata, Ben E. King, Muddy Waters e un balladero chicano. Se esiste un disco dal vivo perfetto, ebbene, io gabrieledomenicogatto di Francesco, affermo e sono pronto a giurare e spergiurare che, sì, è questo. Perché, cazzo!, non si può restare insensibili allo slancio, alla grazia ed al volo di Mixed up shook up girl o al bollore sensuale di Savoir faire e di Slow drain, alla danza sfrenata di Desmasiado corazon, all'aroma di Heart and soul. Chi resta insensibile davanti a questa musica, davanti alla potenza espressiva di una band che non sbaglia un colpo e di un cantante ed autore che su quel palco dà la sua stessa vita, bé, quell'uomo dev'essere una persona veramente triste quando non disperata. O, più semplicemente, non ha un cuore.

Ed ora? Hanno ancora senso i dischi dal vivo al tempo di internet? Certo, solo alcuni possono permetterselo. I Counting Crows, per esempio, che con Live at New Amsterdam hanno realizzato una piccola perla rara, oppure i Wilco. O ancora i Decemberists, appunto. Però sono casi rari. Perché il disco dal vivo era il segno di un artista che voleva parlare al mondo e non a se stesso. È proprio questo il problema del rock di oggi. Grazie a Dio i buoni dischi e le buone band non mancano, però manca il fuoco sacro di un tempo, manca l'ingenua baldanza di chi crede che una canzone, un riff, qualche parola urlata in un microfono possano cambiare il mondo. E finché mancherà questa percezione, finché il rock'n'roll non ritornerà ad essere una forza che apre le porte della vita è difficile che ci possano essere grandi dischi dal vivo. Ma per fortuna non è sempre così, e il disco che ho in mano lo dimostra (per fortuna). Lunga vita a Colin Meloy e ai Decemberists. E lunga vita al rock'n'roll. Ne abbiamo bisogno.

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